Si sono chiuse le porte del carcere di Potenza per Gianni Paciello, il 25enne di Sassano accusato di omicidio colposo plurimo per la strage compiuta dinanzi al Bar New Club 2000 di Silla il 28 settembre 2014. A tre anni dalla terribile vicenda che ha portato alla morte di quattro giovani, tra cui suo fratello, e a conclusione dei tre gradi di giudizio, nella giornata di venerdì i Carabinieri della stazione di Sassano, guidati dal maresciallo Antonio Sirsi, hanno dato esecuzione all’ordine di carcerazione spiccato dal Tribunale di Lagonegro. Paciello è stato prelevato dalla struttura protetta della Caritas a Palinuro dove in questi anni ha vissuto e svolto lavori socialmente utili ed è stato condotto in carcere dove dovrà scontare la pena di 10 anni e 4 mesi di reclusione sancita dalla sentenza della Corte di Cassazione, emessa proprio pochi giorni fa, il 7 novembre. “Provato ma consapevole di dover pagare per il reato commesso” . Così Gianni Paciello è apparso a Don Vincenzo Federico, direttore della Caritas diocesana, che giovedì, prima che la sentenza venisse eseguita, lo aveva sentito al telefono. Prima della pronuncia della Cassazione era sembrato fiducioso, speranzoso rispetto ad una sentenza che poteva alleviare la pena, ma la Corte ha respinto le motivazioni a cui si erano appigliati i legali di Paciello, che avevano sostenuto anche la tesi del malore, vista l’assenza di frenata a terra. In terzo grado dunque è stata confermata la decisione dell’Appello e per il 25 enne sono scattate le manette e sono state applicate anche le pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici nonché la sospensione della patente per 5 anni. E’ la prima volta che Gianni Paciello da quella terribile domenica entra in un penitenziario. In questi anni era stato sempre ai domiciliari. A prenderlo sotto la sua ala, in un momento in cui a Sassano rischiava di essere linciato, era stato Don Vincenzo che lo aveva condotto in gran segreto nel centro di accoglienza per immigrati di Palinuro. Viveva in una palazzina separata , adiacente, e aveva avuto il permesso dal giudice di recarsi presso la mensa dalle 12 alle 18 dove collaborava alla preparazione e alla somministrazione dei pasti dei migranti. In questi 3 anni è stato seguito anche da una psicologa. Un percorso non facile secondo Don Federico: “ Il carcere è un non luogo – ha detto – non è questa la condanna, ma la vita con un tale peso e una tale consapevolezza”.
DARIA SCARPITTA